Mio marito non mi aveva mai picchiata letteralmente parlando. Non aveva mai alzato le mani.
Alzare le mani per lui significava farle ondeggiare in aria, in senso di minaccia, per poi concludere il volo sul viso o, se chiuse a pugno, sull’addome. Questa per lui era violenza. E aveva convinto anche me. Lui non era violento.
Adorava darmi alcuni piccoli ma forzuti pizzicotti sulle braccia o sul sedere che, a seconda della discussione, potevano finire in risate o in lacrime, tanto facevano male. O prendermi il collo, come per sollevarmi, ma senza stringere troppo. Altre volte gli partiva un calcio, là in mezzo, quando tentavo di difendermi a morsi e mi faceva malissimo, solo perchè usava le scarpe e non il piede nudo. Oppure mi spingeva contro un muro, tirandomi addosso quello che gli capitava per le mani, quando gli facevo perdere la pazienza. Non mi colpì mai.
Qualche volta mostravo gli ematomi ad una collega. A dire il vero se ne accorgeva lei, perchè le maniche corte della divisa li lasciavano trapelare, così mi si avvicinava e mi guardava incredula. “Ancora?” Mi chiedeva.
Amavo farmi toccare da lei. Era morbida, e gentile, con le dita sottili e delicate. Lei non si era mai accorta di avere queste qualità, ma evidentemente chi vede nelle mani un gesto d’amore, se ne accorge subito. Come diceva Pascal, “le mani sostengono l’anima“. Ed io non riuscivo più a rendermene conto. Avevo un estremo bisogno di tenerezza, di una carezza o di un abbraccio sincero. Oramai ero diventata un unico pezzo di ghiaccio.
“Abbiamo litigato fisso” le dissi un giorno. Con quello pseudo avverbio “fisso” volevo dire che lui mi aveva riempita di pizzicotti dappertutto, fino a farmi urlare, gridare, tanto nessuno avrebbe sentito in quella via sperduta, in aperta campagna. Solo il cane abbaiava di fronte alle urla e più che correre avanti e indietro, null’altro avrebbe potuto fare.
Io mi sentivo imprigionata in quella condizione di dipendenza. Con tre figli piccoli era difficile prendere una decisione.
Come tante donne vittime di violenza, forse cercavo di cambiarlo, di farlo ragionare, di fargli capire che così facendo la nostra storia sarebbe finita male, anche se lui minacciava di lasciarmi in una sedia a rotelle. Era come se fossi chiusa in una scatola piena di coltelli e nel momento in cui gli dicevo di volerlo lasciare, si faceva piccolo piccolo, e tenero. E chiedeva perdono, con lacrime finte, con bigliettini d’amore o seguendomi dovunque andassi, per supplicarmi di non farlo.
Ma più quegli occhi mi penetravano più capivo di aver sposato un mostro. Quelle pupille riempivano di nero il suo sguardo. E capivo da come respirava che l’uragano era dentro di lui. Perfino le rughe sulla fronte diventavano tante.
Non furono i suoi gesti violenti ad aprirmi gli occhi ma le sue parole. Le offese verbali mi facevano ancor più male dei pizzicotti. Entravano nei miei timpani e si ripercuotevano a campana, come rumori assordanti e insopportabili. “Puttana” era il suo insulto preferito. Era così ignorante che offendeva senza conoscere il significato delle parole. Bastava sparare a raffica, colpire, abbattere e distruggerti dentro.
Ho chiesto aiuto varie volte ma non ho mai trovato il coraggio di denunciarlo. La paura di morire era troppa.
Poi un giorno ho aperto davvero gli occhi. Ho conosciuto la gioia. Ho assaggiato la felicità e ho capito che venivo dall’iperuranio. Sarà stata colpa di William. Lo Shakespeare dalla parte delle donne. Mi hanno aiutato delle volontarie nei gruppi di donne vittime di violenza. Hanno coinvolto la mia famiglia, e quella di lui, che per fortuna non negava. Abbiamo costruito un muro e mi sono sentita protetta grazie ai loro consigli. La violenza non si combatte ad armi pari. Ma contro la stupidità servono l’intelligenza e la cultura.
Nessuno potrà cancellarti quelle cicatrici. E forse non riuscirai più nemmeno a guardare un film dove ci siano scene di violenza. Farai fatica a fare ancora l’amore, a fidarti degli uomini e ad abbandonarti a qualcuno. Nessuno comprenderà a fondo quei traumi se non te stessa. Dovrai riprogrammare tutta la tua vita. Dovrai lavorare sull’autostima demolita, sulle emozioni congelate, sul trauma. Sulla forza di non morire anche dentro. Ma denunciando avrai vinto la battaglia e quando ti renderai conto che la tua storia è quella di migliaia di donne, non avrai più paura. E ti unirai a loro, al grido forte e disperato dello stop alla violenza. Con le mani giunte, unite in preghiera; con le mani aperte, per dire basta; o con le mani alzate per farti notare. Sempre che tu non abbia seppellito il tuo dolore in fondo al cuore, voltando pagina, cambiando luoghi, vivendo altre storie, senza intensità ma con un briciolo di amore per te stessa ed egoismo in più. Trovando il coraggio di buttare il cuore oltre l’ostacolo. Sempre che tu sia ancora viva.
Se anche tu sei vittima di violenza psicologica o fisica chiedi aiuto allo 1522 prima che sia troppo tardi.