Quel gambaletto color rosa carne sbucava dal bermuda di jeans. Mi colpì, e lo sguardo mi cadde la’. Non tanto perché fosse fuori moda ma perché sotto a quei pantaloni, indossava anche un paio di autoreggenti. Si, di quelle che mettiamo per la prevenzione della trombosi durante il ricovero. La signora camminava con sprint e con i piedi un po’ a papera ma si definiva lei stessa “una alternativa”. Della stomia non le interessava nulla. Nemmeno dell’estetica di un sacchetto che le proponevo opaco e che lei sceglieva trasparente per poter vedere il prodotto. Il concetto di estetica era l’ultimo dei suoi pensieri. L’importante era vedere le feci in quel sacchetto. Tante, morbide e del giusto colore. Significava “funzionare bene“, tutto il resto non contava.
Osservavo, come il mio solito, il suo comodino. Nel caos più totale, tre libri sostavano sopra ad un piatto pieno di bucce di mela. Leggeva Rousseau e di lui credo avesse molte cose in comune. Quella giovinezza difficile ed errabonda, quella bravura nel filosofare e la complicità con gli illuministi.
Nata nel ’35 ne hanno viste di cose quegli occhi a spillo come chicchi di uvaspina in un mare blu cobalto. Mai una stomia però. “E che sarà mai un sacchetto sulla pancia ?“. Esclamava schietta ogni volta che glielo dovevamo sostituire. “Se ho la fortuna di essere arrivata fin qui, ne potrò percorrere ancora di strada”. Uno spirito ottimista quindi, che non si lasciava scalfire da un cancro terribile.
Tra le sopracciglia disegnate con una matita dalla punta spessa, tre rughette le davano uno sguardo imbronciato. Poi un giorno, mentre la assistevo in un pomeriggio dei tanti, estrasse un pezzetto di velluto rosso dalla tasca della vestaglia viola.
“Lo vede questo ?”, mi chiese. Certo che lo vedevo ! Me lo spiaccicò sugli occhi !. Indietreggai come se fosse qualcosa di infetto. Ultimamente abbiamo paura di tutto.
“E’ uguale al drappo del vestito dipinto su uno dei miei quadri”. Lì per lì ci avrei giurato che fosse un’artista eclettica e “alternativa”, ma pensare a cosa potesse servire un insignificante pezzo di stoffa smaltato sul mio viso, quello no. Non ci sarei mai arrivata.
Non so perchè ci tenesse tanto a mostrarmi quel pezzetto smilzo di tessuto ma me lo spiegò subito.
“Devo stare bene Fanni, rimettermi in fretta, tornare a casa mia e ricominciare a dipingere“, mi disse senza respirare e con la voce acuta, come di chi non sente bene il mondo circostante.
“L’arte è tutta la mia vita“, aggiunse. Voglio sentire ancora quell’odore di tempera, di tela e pennelli. Di acqua ambrata, a volte azzurrognola a volte giallastra. Quell’odore di colla e di legno di pino che scricchiola sotto ai piedi. E voglio dimenticare il dolore. Perchè il dolore sa di ambienti umidi, mal ventilati. Sa di bustine di tè dalla qualità scadente. Sa di pasti solitari e di sigarette stantie fumate ingobbita contro il freddo. Basta quell’odore per farmi capire che sono fuori posto.
Allora il mio viso s’allargò in un sorriso spontaneo. Ne sapeva di cose la mia paziente.
Ce ne fossero come lei, pensai tra me e me. Di “alternative” dal gambaletto rosa carne che portano l’essenza della loro vita in una umile tasca di una vestaglia viola pasquale. O magari ce ne sono, e non le ho ancora conosciute.