POLDO NON C’È PIÙ

Sarebbe dovuto venire in ambulatorio da me lunedì. Dovevamo organizzare quella cena di beneficienza, e prendere accordi per i volontari, e la ginnastica con gli amici del cuore,  le attività della Lilt,  la visita cardiologica che mi aveva fissato il mercoledì. Dovevamo fare la lista dei soci e decidere il discorso per la serata di venerdì, in qualità di consigliere di quell’associazione che è nata con lui, la “Lega Italiana Lotta ai Tumori”, insieme all’associazione “Amici del Cuore”, e con Pino, Alessandro, Gianfranco e Laura e… e … e non li ricordo tutti. Poldo non c’è più.

Era così, come tanti piedi in tante scarpe. Scarpe che camminano, che percorrono chilometri, che sanno stare dovunque e con chiunque. Scarpe che non calpestano, che sanno attendere, raccontare e sollevarsi in punta di piedi. Come faceva lui, con le sue, discreto e umile, stravagante ma educato, con garbo nei modi, accessibile ad ogni discorso.

Il Dott. Celegon Leopoldo, non indosserà più i suoi occhiali scuri e tantomeno il suo giubbotto multi tasche. Quello che ondeggiava aperto quando camminava sulla corsia del nostro ospedale, giorni fa, con le carte arrotolate in una delle tasche, due penne sul taschino, la immancabile spilletta e le chiavi penzoloni, sul passante dei jeans. Qualcuno non sapeva che fosse stato un Primario.

Primario. Quanto è piena questa parola nell’immaginario collettivo. Illustre e inafferrabile, irraggiungibile, schivo. Il Primario torna lunedì. Il Primario le saprà dire. Il Primario non può, non c’è, è occupato. Ma lui no. Il dottor Celegon era Primario sì, ma della nuova generazione, quella 3.0, dei medici che ti guardano dal basso, che ti parlano facile, a volte in dialetto veneto, che ci sono sempre, anche la domenica,  che ti telefonano per  dirti “damme del tu cea” per carità quando gli scrivevi “scusi il disturbo primario!”.

La sua briosa esuberanza, era pura vitalità, desiderio di mangiarsi la vita tutta, che ne avrebbe voluta ancora tanta con quell’effimero entusiasmo infantile. Ma c’e’ un preciso momento in cui ci si abbandona e si procede a lame sulla vita come campioni di pattinaggio artistico. Non ci sono più strattoni, ripensamenti, finalmente si scivola via seguendo le proprie massime aspirazioni. La vita non si può fermare? E allora tanto vale godersi il panorama a velocità di crociera, come ha fatto lui..

Lo sa bene la sua dolce Laura che non avrebbe mai potuto fermarlo. Lui voleva così, perdersi in quella vita piena, sulle montagne russe, dove il cuore sa battere a mille, tachicardico e forte, per poi calmarsi, farsi ritmico, tornare a casa,  e ripartire. Non credo avrebbe preferito un letto d’ospedale Poldo. Nessuno lo pensa. Ma nemmeno che quel cuore smettesse di battere così, senza preavviso, senza onde, senza curve, senza poter sentire, per l’ultima volta, tutto l’amore di una mano sulla sua, e l’energia di un raggio di sole tremolante tra i rami di pino, mentre la brezza gela il volto e fa cadere le foglie come tanti mulinelli, su ciclamini violetto e campanule bianche. O forse questo lo ha sentito.

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