IO, E IL RESTO NON CONTA

1° capitolo
Lo specchio non aveva avuto pietà di me quella mattina. Neanche se avessi usato quintali di fondotinta non sarei riuscita a coprire le occhiaie e le borse sotto agli occhi, di una notte insonne. Una notte secca, senza lacrime, con tanta rabbia. Avevo letto e riletto quel foglio che mi si appiccicava alle dita come se avesse avuto la colla. La diagnosi era chiara. “Adenocarcinoma”. Avevo il cancro insomma. Senza tanti giri di parole. Cancellate tutte le altre difficili come se la mia mente non le accettasse, mi si è era stampata in testa solo un’immagine: la mia pancia aperta per togliere quel mostro. Non avevo avuto nemmeno il coraggio di cercare in Internet qualche informazione. Mi vedevo solamente dentro ad un pigiama di raso con i piedi infilati in un paio di ciabatte il prima possibile. Altro che tonaca in tribunale, altro che tailleur d’ordinanza. Avrei dovuto appendere al chiodo le mie ambizioni, la carriera di notaio e il trasferimento nella nuova casa. E chissà se Giovanni mi avrebbe sposato in queste condizioni. Dov’erano finiti i miei lobi frontali? Quelli che mi hanno sempre fatto controllare i miei impulsi irrefrenabili. Quelli che avevano stampato in me la spinta, la determinazione, il controllo della situazione, dov’erano nascosti? No, Katy non ce l’avrebbe mai fatta mi ripetevo. Poi è accaduto qualcosa di incredibile
 …continua … 2° capitolo

Giovanni tornò a casa di lì a poco, non era riuscito a lavorare come niente fosse quella mattina. Aveva preferito stare con me, forse si era immaginato la mia tristezza. Se l’era cucita addosso anche lui.
“Non potevo starti lontano”.
Lo abbracciai come se avessi voluto essere stritolata da quelle manone a cuscinone. Per la prima volta era tutto per me. Per la prima volta sentivo che avevo sposato l’uomo giusto. Dopo tante crisi in cui avrei voluto lasciarlo.
“Per la prima volta hai messo me al primo posto” gli sussurrai.
“Lo sei sempre stata cucciola”, mi disse con rammarico.
Si era risentito per quella frase. Ma per me era la prima volta che mi sentivo amata come avrei sempre voluto. Aveva fatto qualcosa per me nel momento peggiore della mia vita. Lui, egoista e narciso, equilibrista intraprendente sulla cresta della vita. Lui, nei suoi abiti di uomo di successo. Mai una piega. Facemmo l’amore come non lo avevamo mai fatto prima. Questa è la cosa più bella del mio ricordo da malata. Ricordo ogni centimetro della sua pelle, il suo odore su di me, le mani tra i miei capelli. E mentre accadeva tutto questo come se fosse stata l’ultima volta, mi sussurrò “voglio sposarti”.
Ci guardammo negli occhi, fissi come chiodi. E piangemmo insieme, tanto, tantissimo, finchè i nostri occhi non ne avevano più di lacrime.
“Si, siiiiiii, si Giovanni anch’io lo voglio” gli dissi mentre cercavo di coprire gli occhi gonfi con un quintale di mascara e fondotinta.
Nel primo pomeriggio ci preparammo e andammo in ospedale.
Era già il mio turno. Giovi mi teneva la mano.
Il chirurgo con la divisa verde, mi attendeva seduto dietro la scrivania e quando aprii la porta avevo un nodo alla gola che mi stava strozzando. Non so se battesse più forte il mio cuore o le dita del dottore sulla tastiera del computer . Scriveva mentre entravo. Non avevo nemmeno il coraggio di sedermi su quella sedia davanti a lui. L’infermiera bassa gli era accanto in piedi con un malloppo di carte tra le mani. Quella alta preparava le luci sul lettino e sistemava il carrello. Avrei tanto voluto un sorriso ma non c’era niente da ridere lo so. Avrei tanto voluto che il dottore mi guardasse negli occhi mentre entravo piuttosto che continuasse a scrivere su quella maledetta tastiera. Che cavolo avrà avuto da scrivere?. Ohi dott scusa io avrei il cancro mi puoi dire qualcosa?. Rimanemmo tutti in silenzio per un altro lunghissimo minuto. Giuro che ancora quando sento il ticchettio della tastiera penso a quella misera scena.
Smise di ticchettare. Prese un foglio di carta e iniziò a disegnare, dopo un mite “buongiorno a voi”.
“Lei ha una massa da togliere e noi faremo il possibile per operarla in fretta e farla stare bene”.
Massa? Massa di che? “Dottore vuole dire tumore?”.
“Sembra di sì”.
È bello ascoltare i medici in queste circostanze, sembrano i colpevoli sul banco dell’imputato che cercano di pesare ogni parola prima che esca dalle loro labbra. Sono io stessa a volte a mettere in bocca le parole ai miei assistiti. Frasi programmate, poco taglienti, educate, fragili sillabe, pause o singhiozzi. Com’è strana la vita.
Ci spiegò la parte di intestino che avrebbe asportato, mi mostrò l’utero e le ovaie, avrebbe tolto anche quelli, mi disse che la vescica era un po’ a rischio ma avrebbero fatto di tutto per salvarla.
“Le metteremo un sacchettino qui”.
“Un?”
“Un sacchettino per le feci.
“Qui?”. Segnavo con il dito sulla mia pancia.
“No dall’altra parte”. “Sarà temporaneo” mi disse.
“Un sacchettino?”. “Per la cacca?” “Io un sacchetto di feci non lo voglio proprio dottore la prego non mi metta un sacchetto”. “La supplico” Lui insisteva sulla necessità e sulla temporaneità ed io mi vedevo in tribunale con il sacchetto sotto alla camicetta e magari il cliente da assistere. Mi vedevo con il pubblico ministero, nei colloqui, a emanare quella puzza. Mi vedevo con Giovanni già schiva e pudica. E Non mi vedevo più. Ero già morta. Caddi a terra perdendo i sensi.
 …continua…
3° capitolo
Dove sono?
L’infermiera reggeva le mie gambe alzate. Appoggiavo i piedi sulla sua spalla, il medico mi aveva allacciato qualcosa al braccio, forse per mettermi un ago, forse per iniettarmi chissà quale veleno.
“è fisiologica”, mi disse mentre cercavo di tirare su la testa guardando a destra.
Ero svenuta. Era la prima volta in vita mia che facevo un salto nell’aldilà. Che poi non ti accorgi di nulla, è bello morire così, boom. Voglio morire così non con un sacchetto di feci sulla pancia.
Giovanni era in piedi dietro l’infermiera, con il viso sbiancato come la cera. Sembrava lui il morto.
Mi aiutarono a mettermi seduta ma non riuscivo a parlare e girava tutto. Avrei voluto solo piangere, urlare, rompere tutte le cose che trovavo davanti a me, scappare via.
Giovanni mi prese la mano quando mi accompagnarono in una stanzina soli. Io la chiusi a pugno tra le sue. Baciò l’anello della nostra promessa.
“Katy, sarà un percorso difficile ma io sono accanto a te. Affronteremo anche questo”.
Saliva fino al collo il nodo che mi avrebbe liberato quel pianto atroce. Sempre più su, fino a strozzarmi. Eccole arrivare le lacrime come un torrente in piena. Lavavano dal mio volto i sentimenti brutti per fare spazio a quelli belli. Sotto il peso delle sue premure mi mancava il respiro ma Giovanni lo sapeva che lo amavo alla follia. Non ero più abituata a tante attenzioni tutte per me. Mi aveva cambiato il corpo con un abbraccio, aveva portato le sue labbra sulle mie ed io avevo scoperto che le persone, quando uniscono universi, diventano galassie e possono viaggiare nello spazio e nel tempo insieme, in un istante eterno.
Ho sempre pensato che fossi io, con le mie scelte, a decidere che ne sarebbe stato di me, senza passaggi obbligati come questo. Ma mi piaceva credere adesso, che Giovanni mi avrebbe fatto cambiare le mie convinzioni.
Il dottore entrò dopo un quarto d’ora. “La ricoveriamo oggi e la operiamo nei prossimi giorni se è d’accordo Katy”.
Giovanni mi guardò negli occhi facendo cenno di sì con la testa. “Va bene dottore”, dissi senza pensarci due volte. Mi sarei liberata del mostro prima possibile.
…Continua…

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